sabato 21 aprile 2012

Un folletto alla mia porta

Non mi piace essere scortese, anche se forse ultimamente mi capita più spesso di diventarlo. Più che altro, perché poi mi sento in colpa per un po' di tempo. Alle prese con una bellicosa ragazza, che inizia a prendere decisioni per conto proprio su come passare il pomeriggio o sul fare o meno i compiti di castigo, so che ogni interruzione nel lavoro, una volta recuperata la voglia dopo tanta fatica e disperazione, può essere fatale e innescare chissà quali nuove ribellioni. Così quando, poco prima di mezzogiorno, suonano alla porta, penso che sia il vicino gentile con la verdura del suo orto. Perciò celo a malapena il mio disappunto alla vista di un giovane ben vestito, anche se il nodo della cravatta allentato è indice di una certa stanchezza. Dietro di sé ha una specie di trolley blu. Capisco subito che dentro c'è qualcosa di cui non ho bisogno nemmeno di sentir parlare. Lo guardo, mi sono già irritata, non con lui ma con me stessa perché non ho guardato dallo spioncino; vorrei chiudergli la porta in faccia, tuttavia mi impongo di essere gentile. Non ho bisogno di un nuovo aspirapolvere. Mi scuso, ma non ho tempo e ho già un aspirapolvere. Mento, ho già visto la dimostrazione, ma non posso permettermi una spesa per l'attrezzo.. Lui sta facendo il suo lavoro, mi dice con accento del sud. Sì ma il tuo lavoro, penso, comprende anche il sentirsi dire che il tuo articolo non interessa. Però adesso, oltre all'irritazione, è partito anche il senso di colpa. Mentre cerco di rintuzzare i suoi tentativi, penso ai giovani senza occupazione, che si barcamenano con lavori precari, magari con la loro bella laurea in scienze della comunicazione o in giurisprudenza, costretti all'umiliazione della vendita porta a porta, a scontrarsi con casalinghe o madri frustrate. Del resto, ogni volta che mi capita una situazione del genere, non posso fare a meno di ricordare che sono incappata anche io in scenette come questa, dalla parte del suonatore di campanelli. Per fortuna è durata forse una settimana o due, ma l'esperienza è di quelle che lasciano il segno. Quindi, sono solidale. Mentre mi stupisco del fatto che esista ancora il folletto, lui non demorde, abbozza uno scherzo con la bambina quando io gli dico che stiamo facendo i compiti, si attacca a ogni mio argomento e non indietreggia di un millimetro. Tenace, penso e ancora mi sforzo di essere gentile. Ma, penso anche, non finirà come altre volte, quando per non essere scortese accettavo l'appuntamento per la pulitura del tappeto e poi non riuscivo più a cacciare via i folletti. La porta rimane aperta a metà, ma lui ha già iniziato la sua spiegazione, mentre maneggia una cartelletta che ha tutta l'aria di voler aprire da un momento all'altro. Mi tocca alzare la voce, mia figlia si allontana dalla porta. Non so se è imbarazzata o spaventata. Il ragazzo fa la faccia del gatto di Shreck. Io, però, non mi lascio impietosire e sono fermamente decisa a cacciarlo. Alla fine capisce che non ce n'è, mi allunga la mano per stringere la mia e mi dice "Grazie, signora, gentilissima". A questo punto, forse, una persona normale si sarebbe arrabbieta, invece io mi sono sentita una miserabile. La piccola era intristita, io ho continuato per un po' a rimuginare sulla mia mutata condizione di diversamente gentile. Col tempo davvero si diventa più intolleranti e ho paura che a poco a poco diventerò una di quelle vecchie impazienti e scorbutiche, quelle che non sopportano le grida dei bimbi che giocano. C'è una cura?

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