giovedì 16 agosto 2012

Paella ferragostana


Tornata dalla Spagna con una paellera, non ho potuto esimermi.
La paella non poteva che nascere in quel paese, luogo di incontro e fusione di elementi: l'olio dei romani, lo zafferano e il riso degli arabi. E, quando è fatta bene, è davvero buona.
Su questo piatto in rete si trova di tutto, ma cercandone l'origine storica  scopro che in qualche modo c'entrano gli italiani.
L'etimologia del termine a noi sembra abbastanza ovvia, nel senso che io ho sempre pensato al recipiente, una padella appunto, parola che però in castigliano non esiste.
Si fa infatti risalire il termine paella a padella, utensile citato da Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Paolo V e autore di una monumentale opera di cucina rinascimentale.
Si suppone poi che all'epoca del dominio spagnolo in Italia, qualche emigrante, magari un cuoco in cerca di miglior fortuna, abbia portato con sé l'utensile, sconosciuto fino ad allora nella penisola iberica; i contadini delle risaie della laguna di Albufera presero poi a usarlo per cucinare con il riso e gli ingredienti di cui disponevano, come coniglio e verdure, una succulenta e nutriente preparazione.

Come tutti i piatti che hanno fortuna internazionale, ognuno se ne impossessa e fa un po' come vuole, per cui, come si trova la pizza con l'ananas, io sono andata alla grossomodo, che in fondo è la mia caratteristica di base: approssimazione e speriamo che me la cavo.

Invitati i nonni, mi sono così cimentata in questa paella di ferragosto.
Lo sbattimento è garantito, però le operazioni sono tante che alla fine diventa un gioco di famiglia. Chi pulisce le cozze, chi fa cuocere il pesce, chi prepara i peperoni.
Con questa misura (40 centimetri di diametro) ci abbiamo mangiato in cinque, facendo il bis e avanzando ancora un paio di porzioni. Non siamo però dei mangioni, credo che una famiglia spagnola media preveda di mangiarci in quattro.
Un tizio simpatico incontrato nel negozio, vedendomi con il tegamone sottobraccio, mi ha chiesto per quante persone fosse indicato. Alla mia risposta, nove, mi ha lanciato uno sguardo incredulo dicendo "que se mueren de hambre"...

Questo piatto non l'ho fatto molte volte e, non essendo votata, come dicevo, alla precisione e all'ordine, seguire ricette elaborate come questa mi riesce difficile, cioè mi rompo le palle, così improvviso. Ogni volta quindi è un azzardo.
Consiglio solo, per rendere più delicato il piatto, di cuocere i peperoni al forno e poi spellarli. I puristi, specie i valenciani, vedono con disgusto la mezcla di carne e pesce. Io invece c'ho messo un po' di pollo e un zic di salsiccia, oltre a gamberi, merluzzo, cozze e calamari. Il rischio grosso è sbagliare la quantità di riso e trasformare il tutto in un pastone traboccante. Inoltre, forse per qualcuno un orrore, ho usato il riso parboiled, che ho sempre schifato e che invece funziona bene per alcuni piatti.
Anche questa volta la paella è riuscita bene, quindi i casi sono tre: o è difficile che venga male o, in fondo in fondo, non me la cavo poi così male in cucina. Oppure, ultima ipotesi da non scartare, la famiglia è di bocca buona.
Prossimo esperimento: gazpacho, con qualche modifica rispetto a come l'ho gustato dagli amici catalani, buonissimo ma orribilmente indigesto.

4 commenti:

  1. Una volta ogni tanto lo zio Matto (che di metà fa venezuelano) ci regala la sua versione della paella, mentre l'attuale Terza Moglie ci delizia con la polvorosa... Meraviglia dei palati!

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    1. La polvorosa ha un nome che già ti vien voglia di assaggiarla. Di venezuelano non conosco nulla...

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  2. io faccio il gazpacho freddo, butto tutti gli ingredienti nel bimby con qualche cubetto di ghiaccio e... voilà!
    (è l'unico modo per far mangiare le verdure crude al Benza)

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    1. Significa che quelle cotte le mangia, è già una gran cosa :-)
      Il gazpacho è buonissimo e facile, ma è il cetriolo che mi ammazza. Di quel color carota che ha in Spagna a me non riesce, infatti loro ci mettono una caterva di cipolla e cetriolo. Dovrei trovare un equilibrio...

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